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  • Immagine del redattoreThomas Raimondi

MILKY WAY (TEJUNT), (2007).

TEJúT è un film del 2007 di Benedek Fliegauf.


Dieci situazioni (apparentemente?) autoconclusive compongono il mosaico di Tejút.

Un film realista che parla un linguaggio surreale. Un film surreale che parla con il linguaggio del reale.


Ogni micro storia/ momento di vita/ situazione è ripresa da una camera statica che costruisce uno scenario (che spesso ricorda un mix tra un Hopper, per campiture piatte e valenza/valore dell'urbanizzazione umana e della concezione di landscape, declinato ovviamente ad un luogo, nella fattispecie moderno e scandinavo, un Hou Hsiao-Hsien per inquadrature statico-descrittive e un Bruno Dumont che mostra e interiorizza paesaggi distaccati e assorti nei confronti dell'umano).


Da un incipit fermo, iniziale, perfetto si sviluppa una narrazione, dall'approccio en plein air impressionista, con ritmi naturali, senza tagli o movimenti alcuni di camera.

Una volta svelato il modus operandi l'attesa diventa elemento co-protagonista dello svolgimento che ha la forza e la caparbietà di farsi guardare con curiosità e pacifica contemplazione, in quanto sommatoria di gesti e azioni riconducibili al comunemente accettato e al consueto (inteso come scorrere lineare del tempo) senza però che lo stupore o la possibilità di un qualcosa di altro ne siano preclusi.

Il mai banale e l' incerto fungono da nucleo per la costruzione di un "En Attendant Godot" cinematografico che non nasconde e non svela offrendo libertà d'interpretazione, dando massimo valore al percepito e al punto di vista personale in antitesi quindi con la scelta tecnico- registica.



C'è un occhio (probabilmente) non umano (chiuso) nella locandina.

Ci sono rumori di voci ancestrali lontane e incomprensibili durante alcuni momenti del film e nei titoli di coda, che sembrano cercarsi e appartenersi le une alle altre.

La storia sembra essere un ciclo e sembra raccontare di un concepimento, di una vita, di una fine (che coincide con una danza, che rimanda anche qui a qualcos'altro, a una certa cultura orientale del balletto inteso come tramite).

Tejút è un film che necessita al condizionale ma che forse ne usa meno di quelle che vorrebbe far credere.

Un film ipertestuale che ha continui rimandi e citazioni a cose "altre" e altrove.

L'occhio (chiuso) come possibile p.o.v. miope dello spettatore che vede, come in uno specchio, la sua vita passare proiettata nell'altro e nelle azioni degli altri, incomprensibili seppur familiari. Nessuna certezza dunque ma solo domande irrisolte nel film così come nella vita.


L'occhio (chiuso) come il possibile sguardo nuovo non attuato, lo stupore dimenticato/sconosciuto di chi si rifiuta di scrutare il mondo con meraviglia e curiosità.

Analogie concettuali con Leos Carax di Holy Motors che sfonda le barriere di tangibile e percepito per fondersi e confondersi in una realtà tanto più verosimile e razionale quanto più bizzarra e strampalata.


Tejút rappresenta un episodio molto felice e riuscito di cinema in quanto unico e originale per sviluppo e narrazione che pone quesiti e apre porte avendo il buon gusto e l'umiltà di non arroccarsi la superiorità ottusa del fornire risposte.

Tejút è tutto questo e di per certo anche il suo contrario.

Tejút è un film che abbraccia, distaccato nella forma, universale e materno nella sostanza.

Tejút è un film formativo sulla possibilità, un occhio chiuso che vuole essere aperto, un ponte verso l'ignoto, un buco nero sul precipizio del creato.

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